Marracash, un’intervista con la presenza dell’autore dei tanti testi famosi del rao italiano

Non si puo fare nessun’analisi senza conoscere l’autore dei testi.

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«Non sono figlio di nessuno. Non sono amico di nessuno. Ma adesso sono a casa tua». Così Marracash, all’anagrafe Fabio Rizzo, si è presentato a Vasco Rossi una volta che, tramite amici comuni, è capitato a una cena nella casa del rocker a Los Angeles. «Ho origini estremamente popolari. Genitori di origini siciliane, entrambi arrivati a Milano da Nicosia, e contadine. Vivevamo in zona Chinatown, casa popolare senza bagno e con una turca al piano. Una famiglia quasi verghiana insomma». I riferimenti letterari, non solo i congiuntivi azzeccati che già sono una rarità nell’ambiente musicale. Marracash, 37 anni, è il letterato del rap. Nei suoi album la rima non è solo un gioco a effetto con un nome famoso e una parola rubata al gergo da social network. «Ho iniziato a leggere da bambino. Sono partito da Ventimila leghe sotto i mari . Soffrivo di insonnia e un libro mi aiutava. Era anche un passatempo che costava poco. In cortile con gli amici fumavamo canne e io facevo i riassunti dei romanzi che leggevo. Quando ho scoperto Baudelaire ho avuto la sensazione di leggere qualcosa che avevo dentro ma non sapevo esprimere. Hemingway l’ho letto tutto».

Un passo indietro. Quando Fabio ha 10 anni la vita della famiglia Rizzo cambia. «Nel 1992, causa Tangentopoli, arrestarono il proprietario della ditta per cui lavorava mio padre. Perse il lavoro e arrivò pure lo sfratto». Dalla Chinatown che mischia popolare e piccola borghesia, alla Barona, periferia pericolosa «Fu uno choc». Teppisti e bulli abbondano e Marra si adegua. «In Chinatown mi vergognavo a invitare amici a casa, mi sentivo emarginato. Nel nuovo quartiere mi sono ricollocato. Sono peggiorato a livello degli altri. I valori erano al contrario: ti sentivi figo se avevi i genitori criminali. La mia faccia da marocchino e poco di buono è servita». Il nome d’arte è nato proprio dalla storpiatura dei soprannomi che gli davano allora.

Qualche capitolo dell’adolescenza di Marra si perde fra storie di strada e di droga. Fino a che non arriva il rap. «Sono stato sempre un insicuro. Mi sento ancora a disagio quando entro in una boutique. Forse è perché i miei non mi hanno mai spronato». Ricordi di famiglia: «Ero un ribelle, nei miei genitori vedevo quello che non volevo diventare, una persona schiacciata dal lavoro disumanizzante. Loro dicevano che erano stronzate che mi mettevano in testa i libri. E quando ho iniziato a fare musica pensavano fosse una perdita di tempo. Quando col rap sono arrivati i primi risultati ho finalmente trovato il modo per credere in me stesso». Sull’onda del successo di Fabri Fibra, Marracash è stato uno dei pionieri della seconda ondata dell’hip hop italiano dopo il naufragio di quella degli anni Novanta. I primi passi underground con la Dogo Gang, il passaggio a una multinazionale e il successo di «Badabum cha cha», i dischi d’oro con «King del rap» e «Status». E prima dell’estate uscirà un album, in coppia con Gué Pequeno dei Club Dogo, candidato al numero 1 della classifica. «Siamo amici da quando avevamo 16 anni, abbiamo mosso i primi passi assieme e creato un immaginario».

Radicale (quindi solo) in amore

Marra non aveva un piano B. «A un certo punto, affascinato dai modelli alternativi scoperti nei romanzi di Fante o Bukowski, ho pensato anche che avrei fatto il vagabondo». Si è concentrato sulla musica. «Non ho una fidanzata, gli amici sono in galera o si sono sposati… Se non riuscissi più a buttare fuori le mie tensioni con la musica impazzirei». Niente amore? «Sono molto radicale. Ho idee condivise solo da me, mi fa strano non adattarmi a quello che vale per tutti gli altri. Credo nell’amore, non nella coppia. Sono egoista all’estremo. Posso amare una ragazza anche una sera sola, dando tutto me stesso». Sesso e droga, festini e macchinoni, selfie con i fan e champagne. Così i rapper raccontano la loro vita: «La fabolous life dell’artista… A sprazzi c’è, alternata a settimane in cui ti rinchiudi in casa per creare. Gli amici vengono a trovarti come si fa con i carcerati. La scrittura è qualcosa di viscerale».

La vita nel Bronx

Anche col successo è rimasto in Barona. Non è fuggito in qualche quartiere della Milano bohemienne o modaiola. «Ci sto da dio, sono orgoglioso delle mie origini, apprezzo l’estetica da Bronx. È una periferia isolata il giusto se vuoi stare tranquillo, ma presente il giusto visto che sei vicino ai Navigli. Mai pensato di andarmene, piuttosto ho pensato di lasciare l’Italia». I rocker, vedi i Rolling Stones, hanno una carriera che va oltre i 70 anni. L’hip hop, i grandi della old school sono usciti di scena prima, non ha ancora dimostrato la stessa longevità. «Posso sembrare spocchioso, ma penso di poter fare qualsiasi cosa con la parola. Non capisco i borghesi affascinati dai modelli di delinquenza di strada. A me attira altro, ho modelli alti. Potrei scrivere dei racconti».

Musica senza rischi

Non è ottimista sullo stato di salute della musica italiana. «Le radio, arroccate e spaventate dal nuovo, non rischiano. Nel pop ci sono 5-6 autori che scrivono per tutti e le canzoni si assomigliano tutte. Anche nel rap molti non raccontano più storie e hanno testi che sembrano arrivare da generatore automatico di frasi fatte e tweet. È frustrante sperimentare se alla fine le radio non ti passano e c’è paura del dibattito. E non pensiamo che sia dibattito discutere con Gasparri su Twitter». Frecciata per Fedez che col politico si è pizzicato più volte via social? «Si dice impegnato poi fa musica che non lo è. Si parla di lui e non delle sue canzoni. Fare musica di qualità è un impegno civile». Lo è anche la politica? «Non ho mai votato. Non ho la tessera elettorale. Siamo arrivati al capolinea della democrazia e presto sentiremo forti scossoni. Gli immigrati, che all’estero sono già una forza di cambiamento, ci faranno il c… e ci strapperanno da questa immobilità. Nel rap stanno già iniziando a farlo».